Nella classifica stilata da Transparency International, il regno alawita retrocede all’88° posizione, con l’ong che accusa il governo di “incapacità e fallimento”.
Malversazione, clientelismo, racket e estorsioni continuano a trovare terreno fertile in Marocco. Si tratta di un fenomeno “endemico”, secondo quanto stipulato dall’indice di percezione della corruzione proposto da Transparency International (TI).
Un fenomeno che interessa tutti i settori e le classi sociali – seppur con gradi e implicazioni diverse – in costante aumento nell’ultimo decennio.
Fino alla fine degli anni Novanta, infatti, nella classifica stilata dalla ong tedesca il regno alawita si attestava su livelli più decorosi, prima di scivolare all’88° posto attuale, dietro alla Tunisia (75°) ma davanti alla vicina Algeria (105°; per inciso l’Italia non è messa poi tanto meglio con il suo 72° posto).
Questo perché, secondo TI, gli esecutivi che si sono succeduti non hanno adottato alcuna misura concreta per combattere una “piaga che minaccia la coesione sociale e la salute dell’economia”, a dispetto di un sensibile accrescimento di investimenti e capitali (nazionali e stranieri) in circolazione sul territorio.
A migliorare la situazione non sono servite le lunghe proteste di piazza del 2011, l’anno delle “primavere”, durante il quale il Movimento 20 febbraio aveva puntato il dito proprio contro la corruzione (largamente) diffusa nelle amministrazioni, nei centri di potere a tutti i livelli e nei circoli di Palazzo che controllano l’economia del paese, chiedendo la fine dell’impunità per i responsabili dei grandi scandali finanziari (ad esempio il primo ministro di allora Abbas El Fassi coinvolto nell’affaire Annajat).
Non sono servite nemmeno le “riforme”, seguite alle contestazioni, e l’elezione di un nuovo governo di marca islamista. La costituzione voluta dal sovrano approvata un anno e mezzo fa doveva assicurare una svolta nella direzione della bonne gouvernance e del riequilibrio dei poteri, ma così non è stato.
L’articolo 36 del nuovo testo vieta espressamente il “traffico di influenze e l’abuso di potere”, un reato punito dai 2 ai 5 anni di carcere dal codice penale.
L’articolo 166 istituisce un consiglio della concorrenza e il 167 prevede la creazione di una istanza nazionale di moralità per la lotta alla corruzione, l’ICPC (Instance centrale de la prévention de la corruption).
Ma la teoria e la pratica fanno fatica a conciliarsi – spiega il giornalista Ahmed Benchemsi dalle colonne di Le Monde – in un paese “minato dai conflitti di interesse (…) dove i poteri forti godono della complicità delle autorità elette e viceversa”.
viaLa corruzione in Marocco? “E’ un metodo di gouvernance”.