• Mar 11, 2024
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Pubblichiamo la seconda di quattro interviste realizzate da Matteo Finco e Alessandro Andrenacci, durante la Summer school dell’Università Cattolica “Confini. Mobilità umana e giustizia sociale”.

Gabriele Del Grande
Gabriele Del Grande

Gabriele Del Grande ha 28 anni e una significativa esperienza in materia di immigrazione verso l’Europa. É un giornalista indipendente che negli ultimi anni ha girato in lungo e in largo il Mediterraneo, per raccontare le storie di chi tenta di raggiungere il nostro continente nella speranza di un avvenire migliore. Ha già scritto tre libri, l’ultimo dei quali, Il mare di mezzo. Al tempo dei respingimenti (edizioni Infinito), sta presentando in questo periodo in giro per l’Italia. Il suo sito internet (http://fortresseurope.blogspot.com) è un importante punto di riferimento per chi voglia rendersi conto di cosa realmente accade nelle acque del Mediterraneo: i servizi dei telegiornali dedicano spazi ristretti alle storie dell’immigrazione, spesso limitandosi a dei ‘bollettini’ infarciti di cifre e con scarsa attenzione all’uso dei termini appropriati.
“Dell’immigrazione si parla, ma non nel modo giusto”, dice Gabriele, arrivato a Loreto per raccontare la sua esperienza ai partecipanti della summer school dell’Università Cattolica Confini. Mobilità umana e giustizia globale. “Le persone nei servizi sono spersonalizzate, disumanizzate. Vengono usate immagini d’archivio. I racconti sono fatti attraverso cifre, statistiche, parole neutre, come ‘clandestini’, ‘profughi’, ‘rifugiati’, contenitori che non hanno niente d’umano, perché le persone non hanno voce. Anche le immagini non sono neutre: per anni ci hanno mostrato corpo stanchi, sfiniti, disidratati, al loro arrivo. Non vengono mai raccontati però il giorno prima di partire o la settimana successiva. Questo accade non perché ci sia un grande censore, ma a causa dell’organizzazione del lavoro nelle redazioni: i servizi si fanno da Roma, non da Lampedusa. Vengo usate immagini d’archivio e le agenzie di stampa. Le persone non sono mai soggetto, ma oggetto di un discorso. Il problema grosso è l’autocensura, il modo di lavorare e di organizzarsi dei giornalisti: ci sono ottimi professionisti, ma se viene loro richiesto di mantenere standard elevati, di produrre molto in poco tempo, non si ha il tempo di approfondire, di indagare”.
Chiaccherando con lui non si può fare a meno di pensare che non ha ancora 30 anni. Viene da chiedersi se l’età sarà stata un freno o un incentivo a spingerlo verso un’attività così particolare.
“É un lavoro che faccio proprio a causa della mia giovane età – risponde ­– perché sei giovane, sei entusiasta e vuoi lavorare. L’età è uno svantaggio nella misura in cui spesso se non hai 50 anni nessuno investe su di te. Il mio sito è riconosciuto, citato, ma nessuno decide di investire su questo tipo di lavoro. Io ho cominciato nel 2005 per l’agenzia stampa Redattore Sociale di Capodarco (Fm). Proposi un approfondimento sui naufragi nel canale di Sicilia. Quel pezzo è diventato una ricerca, con molti documenti. Non sapevo che farne ed è diventato un blog. Alla fine del 2006 sono partito per un viaggio, e non mi sono più fermato”.
Di storie da raccontare ne avrebbe moltissime. Risaltano alcuni particolari, le sensazioni e i ricordi, ma anche le difficoltà che incontra lavorando in  alcuni Paesi spesso poco trasparenti.
“A causa di alcuni pezzi che ho scritto non sono il benvenuto. In Libia, in Tunisia, dove l’ultima volta che ci sono stato mi hanno espulso. In Libia sono riuscito a visitare le carceri, autorizzato dal governo. La Libia in questo momento è in fase di apertura, vuole mostrarsi come un Paese aperto, democratico, dove c’è libertà di stampa, anche se poi non è così. Ovviamente ci hanno fatto vedere solo i centri più nuovi, quelli finanziati dall’Europa. Li hanno un po’ ripuliti e svuotati, sperando che ci bevessimo la loro storiella, come hanno fatto altri colleghi. Noi però siamo rimasti 20 giorni, a Tripoli siamo riusciti a lavorare in maniera indipendente, incontrando altri testimoni, facendoci raccontare cosa accadeva in realtà, al di là delle apparenze”.

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Gli ultimi dati del governo indicano che il numero di persone direttamente colpite dall’alluvione sono 17,2 milioni, su un’area che si estende dal confine cinese fino alla foce del fiume Indo. Il bilancio delle vittime è salito leggermente a 1.542, con 2.327 feriti accertati. Un totale di 1,2 milioni di case sono state danneggiati o distrutti (tutte le cifre provengono dalle autorità provinciali e nazionali di gestione dell’emergenza).

Altre città e villaggi nel distretto di Qamber Shahdadkot nel Sindh sono stati inondati il 24 agosto. Le immagini satellitari del 23 agosto hanno mostrato le acque alluvionali crescente avanzare entro 1,3 km dalla città di Shahdadkot, che continua ad essere sotto diretta minaccia di inondazioni. Un gran numero di persone sono ancora bloccate dalle acque nei distretti di Jaffarabad e Nasirabad nel Balochistan, dove le operazioni di soccorso sono in corso. Le autorità di Jaffarabad hanno annunciato che il bilancio delle vittime nel distretto è salito a 50.

L’onda di piena continua a passare attraverso lo sbarramento di Kotri nel sud del Sindh, e diverse zone di bassa altitudine dei distretti di Hyderabad, Jamshoro, Dadu e Thatta hanno segnalato di essere sotto l’acqua. Esodi su larga scala hanno avuto luogo da queste zone verso posti più sicuri, fra cui Karachi. Il Dipartimento Meteorologico ha riferito il 25 agosto che il livello delle acque a Kotri resterebbe “eccezionalmente elevato” per le prossime 24 ore, con ulteriori inondazioni previste nelle aree circostanti. Con una stima di 800.000 persone in Sindh ora nei campi di soccorso e in insediamenti spontanei, le autorità provinciali hanno chiesto sostegno all’UNHCR attivando il coordinamento e la gestione dei campi. Continua la lettura sul sito di ISCOS

  • 11 Marzo 2024
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segnaliamo da Fortress Europe La foto è di Ainara Makalilo. Su Rebelion potete vedere gli altri suoi scatti e leggere la preziosa analisi di Alma Allende, in spagnolo. L’ha scattata martedì nella piazza della kasbah di Tunisi, dove da ormai cinque giorni, ventiquattr’ore su ventiquattro, i giovani delle regioni più povere del paese presidiano la sede del governo per chiedere le dimissioni degli uomini vicini al regime del deposto di Ben Ali, supportati da scioperi e manifestazioni in tutto il paese. Nella foto si vede un manifesto appeso al muro della sede del primo ministro, su cui c’è scritto in italiano: “No voi andare Italia in barca“. È un messaggio per la nostra ipocrita Europa, che ama riempirsi la bocca di retorica sui diritti umani, ma che per 23 anni ha appoggiato uno stato di polizia che ha represso ogni forma di libertà in questo paese, in nome della lotta al terrorismo. I ragazzi oggi in piazza sono gli stessi che fino all’anno scorso prendevano il largo per Lampedusa. Ed è lo stesso il loro coraggio. Quello di chi rischia la vita in mare o sfida i fucili dei cecchini del regime nelle proteste di piazza con uno stesso rivoluzionario obiettivo: cambiare il proprio destino. Un concetto che evidentemente sfugge a un reazionario come il vicesindaco di Milano, che nelle rivolte del sud del Mediterraneo legge soltanto il pericolo di un’invasione di ladri e accattoni. […] Continua a leggere su Fortress Europe

  • 11 Marzo 2024
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