• Mar 11, 2024
  • 13 minutes

di Jacopo Granci da Rabat
Nel lontano 1978, su domanda del Fondo monetario internazionale (FMI), il Marocco inaugurò un programma di riforme economiche basato sulla riduzione degli investimenti statali, l’aumento delle tasse e il blocco dei salari.
Le rivolte popolari scatenate dal provvedimento spinsero il governo al congelamento dell’iniziativa.
Tuttavia, solo due anni dopo, il FMI impose l’adozione di un nuovo Piano di aggiustamento strutturale (PAS) che prevedeva, tra le altre cose, la riduzione delle sovvenzioni sui prodotti alimentari.
I prezzi esplosero – ad esempio quello della farina, cresciuto in pochi giorni del 50% – e la popolazione, assieme ai sindacati, scese in piazza per chiedere la cancellazione degli aumenti.
Nel 1981, in molte città del regno, le contestazioni si trasformarono in tumulti e saccheggi. Nella sola Casablanca i morti si contarono a centinaia, come i feriti e le persone finite in arresto.
Da allora, nella memoria dei marocchini, il ‘Piano di aggiustamento strutturale’ è diventato sinonimo di restrizioni, sacrifici e repressione, oltre che di innalzamento del costo della vita, licenziamenti e disoccupazione.
Un ricordo doloroso.
Un passato, però, che sembra essere tornato di attualità da quando, il 3 agosto scorso, il consiglio di amministrazione del FMI ha deciso di concedere al regno alawita – alle prese con una profonda crisi economica, aggravatasi negli ultimi tempi – un finanziamento di 6,2 miliardi di dollari.
Una cifra ragguardevole, che rappresenta da sola più della metà del debito estero contratto dal paese maghrebino negli ultimi decenni.
L’intervento del Fondo monetario, che ha tutta l’aria di un’operazione di salvataggio, è stato presentato ai media come una semplice misura precauzionale.
“Una polizza assicurativa contro gli eventuali rischi che incombono sull’economia marocchina”, afferma la presidente del FMI Christine Lagarde, una “riserva di sicurezza” per rassicurare i mercati internazionali sulla buona salute finanziaria del Marocco, è il commento rilasciato dal ministro delle Finanze Nizar Baraka.
Ma, all’interno del regno, c’è chi la pensa diversamente.
L’economista Najib Akesbi tratteggia un quadro della condizione economica del paese molto più critico di quello che le autorità lasciano trapelare.
Secondo Akesbi, infatti, è “ridicolo” soltanto immaginare che il FMI abbia concesso un prestito di una tale rilevanza senza imporre condizioni, “almeno per assicurarsi che venga rimborsato”.
Rivolgersi alle istanze finanziarie internazionali – per l’economista – significa rinunciare alla propria sovranità.
La conferma – stando al parere di Akesbi – arriva con le ultime valutazioni, “apparentemente contraddittorie”, emesse sullo stato di salute del regno dopo la concessione del prestito e a pochi giorni dalla votazione della manovra economica per il 2013, una manovra “di austerità” come ha già annunciato il governo.
Mentre lo stesso FMI ha previsto, in una nota resa pubblica il 9 ottobre scorso, un tasso di crescita “generoso e poco credibile” del 5,5% (quello attuale supera di poco il 2%), l’agenzia di rating Standard and Poor’s (S&P) ha modificato in “negativa” la prospettiva di rimborsabilità del debito marocchino sul lungo periodo, specificando che “se la disoccupazione rimarrà ostinatamente elevata, il costo della vita aumenterà e se le riforme politiche si riveleranno deludenti per la popolazione, si correrà il rischio di disordini sociali su vasta scala”.
Secondo l’economista queste due valutazioni, a primo impatto discordanti, in realtà convergerebbero in un’unica strategia di condizionamento.
“S&P ci fa vedere il bastone e il FMI ci mostra la carota – senza contare che le loro previsioni nella maggior parte dei casi si sono rivelate sbagliate – ma il messaggio è lo stesso: ‘per risanare i vostri conti e per sfuggire al peggio dovrete applicare la politica che vi detteremo’. Il governo, di fatto, si trova già sotto tutela”.
Intervista a Najib Akesbi (Università Mohammed V, Rabat)
Da qualche mese in Marocco si è iniziato a parlare di crisi economica, in maniera sempre più insistente, smentendo così le rosee previsioni formulate negli anni precedenti dagli organismi economici nazionali e internazionali. Per molti si è trattato di un fulmine a ciel sereno.
Siamo di fronte ad una impasse. La situazione delle risorse budgetarie è catastrofica. Gli esponenti del governo stanno cercando di sdrammatizzare, ma il quadro è chiaro.
Da una parte le entrate (ricette fiscali essenzialmente) sono diminuite, dall’altra la spesa pubblica è in continuo aumento e va ad appesantire il deficit di bilancio (6,1% del PIL nel 2011), già condizionato da una bilancia commerciale costantemente in rosso negli ultimi anni.
Per fare un esempio, dando solo un’occhiata alla legge finanziaria del 2012 si vede come imposte e oneri fiscali in genere coprano solamente il 60% della manovra. Significa che il 40% mancante bisogna trovarlo da qualche altra parte.
Dove?
Il Marocco non possiede risorse in idrocarburi, abbiamo già esaurito – e senza particolari rientri – il ricorso alle privatizzazioni. Quale soluzione immediata a questo punto? L’indebitamento.
Tale impasse, tuttavia, è il risultato di una politica economica suicida – nella tassazione, nella scelta degli investimenti, nella gestione delle riserve di cambio – e non della casualità, come qualcuno vorrebbe far credere, o della congiuntura sfavorevole che stiamo attraversando con la crisi della zona euro, che io considero al massimo il detonatore di una situazione già di per sé esplosiva.
Perché la definisce una “politica suicida”?
Prima di tutto perché la politica fiscale degli ultimi venti anni ha ridotto le risorse dello Stato in maniera gratuita, concedendo privilegi ed esoneri alle fasce più agiate senza chiedere nulla in contropartita.
Mi riferisco all’abbassamento delle imposte dirette sulle fasce di reddito superiori – un regalo ai ricchi di cui certo non avevano bisogno – e alla riduzione della tassazione sulle aziende, ben sapendo che solo un numero ristretto di grandi imprese – peraltro già prospere – ne ha beneficiato per ampliare i propri profitti.
In questo modo lo Stato si è visto privato di risorse vitali senza che ad un simile sacrificio sia conseguito il minimo effetto benefico sull’economia del paese.
Dove sono finiti i miliardi di investimenti e le centinaia di migliaia di posti di lavoro promessi?
Dove sono le imprese dell’informale che avrebbero dovuto approfittare di questa ‘condizione favorevole’ per passare alla legalità?
In tutto questo la maggioranza della popolazione affonda sotto il peso delle imposte indirette e il grosso del carico fiscale continua a pesare sulle fasce medio-basse.
Parlando di ricette fiscali e mancanza di redistribuzione della ricchezza, che fine a fatto la proposta di una “tassa sui grandi capitali” avanzata dalla maggioranza dei partiti solo un anno fa?
E’ finita rapidamente nel dimenticatoio, anche a seguito delle pressioni sul nuovo governo esercitate dalla CGEM (la Confindustria marocchina, nda) e nonostante la retorica sulla riduzione della povertà e del divario socio-economico che ha sempre caratterizzato il PJD (partito islamico vincitore delle ultime elezioni, nda).
Ma nel Marocco attuale, con le forti disuguaglianze e tensioni sociali che lo caratterizzano, non è possibile ipotizzare una riforma fiscale – come è nelle intenzioni dell’esecutivo – senza tener conto di una imposta sulle grandi fortune, dietro cui si nasconde la zavorra dell’economia di rendita.
Oppure senza attuare un ammodernamento della legislazione in materia di evasione, che possa bloccare – tra l’altro – la fuga di capitali all’estero stimata ad oltre 2 miliardi di dollari all’anno.
Quali altri fattori endogeni hanno contribuito ad affossare l’economia marocchina?
La crescita incontrollata della spesa pubblica, che peraltro non è riuscita a risolvere nessuno dei problemi socio-economici emersi nell’ultimo periodo.
Ad esempio i pensionamenti anticipati sovvenzionati dal governo nel 2005 per ridurre il volume della massa salariale (pubblica), un’operazione onerosa per le casse dello Stato che però non ha ridotto le uscite su questo versante e ha messo nei guai gli enti di previdenza sociale.
Non è stato risolto né il nodo della qualità né quello della quantità dei funzionari, dal momento che il reclutamento pubblico continua ad essere uno strumento politico, una valvola per allentare le pressioni sociali o, ancora peggio, per rispondere alle reti di clientela locali e nazionali.
C’è poi la questione della Caisse de compensation, mai riformata ed oggi divenuta un macigno sui conti dello Stato. Ma l’argomento merita una riflessione a parte.
Infine gli investimenti.
Continuano a ripeterci che sono aumentati negli ultimi anni, ma di quali investimenti parliamo? Sono produttivi?
Assicurano un reale impatto per lo sviluppo del territorio?
Prendiamo ad esempio le autostrade – che quasi nessuno percorre – gli hotel di lusso e i complessi immobiliari futuristici – destinati ad una manciata di magnati – per non parlare poi del TGV, un progetto dispendioso e inutile.
Il volume degli investimenti potrà anche essere cresciuto, ma nella maggior parte dei casi sono improduttivi e non assicurano un ritorno né allo Stato né alla popolazione.
Ciò non toglie che, stando almeno al dato sulla crescita macroeconomica, il Marocco era sembrato un paese in salute nel corso dell’ultimo decennio….
Il tasso di crescita macroeconomica non corrisponde ad un reale sviluppo del paese, non assicura la redistribuzione della ricchezza e non basta per poter considerare uno Stato in salute.
Senza contare che questo dato, in Marocco, è sempre stato estremamente fluttuante, e può variare dal 5 allo 0% in poco tempo.
Questo perché due tra i suoi fattori determinanti restano gli agenti atmosferici e l’oscillazione dei prezzi dei prodotti di base (cereali, zucchero, idrocarburi) sui mercati internazionali.
In altre parole la crescita in Marocco è soggetta al volere delle forze celesti – se piove o se c’è siccità, come successo nell’ultimo anno – o dei partner commerciali stranieri.
La produzione agricola quindi, nonostante gli investimenti del piano Maroc Vert, non è ancora in grado di assicurare un approvvigionamento alimentare di base?
Assolutamente no, quello agricolo è un settore esemplare per capire la miopia degli investimenti e l’errore strategico della politica di governo.
Si è preferito puntare sui prodotti da esportazione (pomodori, fragole, banane..) – come ci è stato “raccomandato” oltrefrontiera – su un compartimento che coinvolge solo il 2% delle aziende del settore e non sui prodotti di prima necessità (cereali) di cui riusciamo a coprire, mediamente, meno della metà del fabbisogno interno.
Si è deciso di esportare pomodori e importare grano ed oggi siamo arrivati al punto che non riusciamo a vendere tutti i nostri pomodori, mentre il grano (i cereali rappresentano attualmente circa il 70% dell’import agroalimentare, nda) lo paghiamo sempre più caro.
Il risultato è un’accresciuta dipendenza alimentare e un saldo pesantemente negativo nella bilancia commerciale di settore.
Pensi che negli ultimi tre decenni le esportazioni sono passate dal coprire il doppio delle importazioni ad un tasso inferiore al 50%.
Gli accordi di libero scambio dei prodotti agricoli sono stati una delle prime conseguenze dell’apertura economica imposta dagli organismi internazionali. In che modo questo genere di accordi ha influito nella crisi attraversata dal Marocco?
Fin dai primi accordi abbiamo assistito alla bella retorica sull’apertura e sulla promozione delle esportazioni come motore trainante dello sviluppo nazionale.
Cosa constatiamo oggi?
Uno dei principali ostacoli alla crescita e allo sviluppo è proprio il commercio estero, con l’aumento delle importazioni che intaccano le riserve di cambio in valuta straniera (dollari, euro).
Il Marocco ha voluto integrarsi nell’economia mondiale senza avere i mezzi e le competenze per poter essere competitivo sul mercato internazionale.
Abbiamo moltiplicato gli accordi di libero scambio (UE, USA, Turchia, Golfo..) e il risultato oggi è che siamo perdenti su tutti i fronti.
Quegli accordi contribuiscono all’affossamento dell’economia nazionale, dal momento che ci impongono parametri e condizioni a cui non siamo preparati.
Se le difficoltà della zona euro possono essere considerate un “detonatore”, un’aggravante della crisi marocchina, in che modo la recessione della sponda nord del Mediterraneo ha contribuito ad aggravare la situazione?
Ha avuto una ripercussione generale sull’intera economia, dal momento che i paesi della zona euro sono il principale fornitore e cliente del Marocco, e una conseguenza specifica sull’afflusso di valuta europea, attraverso i ‘canali di trasmissione della crisi’.
Quali sono questi canali?
Innanzi tutto la riduzione delle esportazioni (prodotti agricoli e tessili), il primo canale di trasmissione date le difficoltà finanziarie attraversate dal mercato europeo.
Poi le rimesse dei marocchini residenti all’estero, anch’esse in calo a seguito dell’innalzamento del costo della vita e della perdita dei posti di lavoro da parte di molti emigrati, che non inviano più nulla o quasi alle famiglie rimaste in patria. Bisogna inoltre considerare le ricadute sul turismo.
La gran parte dei turisti che negli ultimi anni hanno scelto come meta di villeggiatura il Marocco sono francesi e spagnoli, europei in generale, che in questa fase preferiscono restare a casa propria con un occhio al portafogli.
Infine, ultimo grande canale di trasmissione della crisi europea, la diminuzione registrata a livello di investimenti diretti stranieri sul territorio.
Fino ad ora ci siamo soffermati sulle origini e le caratteristiche della crisi marocchina. Parliamo ora di una delle sue prime evidenti conseguenze, la concessione del prestito di 6,2 miliardi di dollari da parte del FMI. Qual è la sua opinione in proposito?
Come accennavo all’inizio, il Marocco è condannato ad indebitarsi, in mancanza di vere riforme politico-economiche sul piano interno (di cui i risultati si vedrebbero comunque soltanto a lungo termine).
Per il governo, attingere ad un cospicuo stock di moneta in valuta straniera significa da una parte colmare il budget di spesa e dall’altra dare respiro alle riserve di cambio, scese sotto i minimi livelli di guardia.
Ma il credito erogato dall’FMI non è una manna dal cielo, non è la soluzione. E’ una misura d’urgenza, forse addirittura insufficiente, che rischia soltanto di accelerare il declino.
I 6 miliardi di dollari che dovrebbero aiutare il Marocco a liberarsi da una situazione di dipendenza, non faranno che mantenere il paese nella spirale dell’indebitamento, da cui a questo punto sarà difficile uscire.
Nella nota redatta dal FMI al momento del prestito viene utilizzato un linguaggio piuttosto soft. Si parla di “linea di precauzione e di liquidità”. Che cosa significa esattamente?
Che bisogna smettere di giocare con le parole. I piani di aggiustamento strutturale imposti negli anni Ottanta hanno lasciato un ricordo doloroso nella memoria della popolazione e soltanto a sentir parlare di un nuovo PAS l’opinione pubblica avrebbe una reazione negativa immediata.
Lo stesso FMI è consapevole che questo prodotto finanziario non è più “vendibile”, non è più ricevibile, ed è costretto a fare un’operazione di marketing. A trovare un escamotage.
In questo caso ha mascherato il suo vecchio prodotto, cambiandogli d’abito. Ha sostituito l’etichetta, parlando di “precauzione” piuttosto che di aggiustamento o condizionamento, di “razionalizzazione della spesa” piuttosto che di austerità e rigore, ma non ha mutato la sostanza del prodotto, che resta un vero e proprio PAS.
Questa mossa permette ai politici ed ai governi dei paesi in via di sviluppo, quelli che ricevono il prestito, di indorare la pillola di fronte alla propria opinione pubblica e costringerla ad accettare una politica economica che non vuol dire il suo vero nome.
Qualche polemica è scoppiata lo stesso e il governo si è difeso dicendo che quei fondi, probabilmente, non verranno utilizzati….
E’ un’altra bugia, un altro sistema per sviare l’attenzione. Se il Marocco non aveva bisogno di questo prestito, non si capisce perché lo abbia chiesto.
Che venga utilizzato o meno, il prestito – una volta erogato – matura interessi che vanno anch’essi a gravare sul bilancio. Quindi il governo ha tutto l’interesse, oltre alla necessità, di utilizzare i soldi ricevuti.
Ma allo stesso tempo l’FMI chiede garanzie. Non bisogna dimenticare che il FMI, come la Banca mondiale, è un organismo che deve vendere i propri prodotti finanziari deve assicurare il rientro dell’investimento.
E’ un’azienda, non un ente caritatevole internazionale. Ha mai conosciuto una banca pronta a prestarle denaro senza avere la massima condizione di sicurezza che lei possa effettivamente rimborsarlo? Suppongo di no.
Quali sono le garanzie chieste dall’FMI al Marocco?
Il controllo della politica economica e finanziaria, la ricetta è sempre la stessa anche se il nome è diverso. Per questo dico che ci troviamo già in piena logica di aggiustamento strutturale.
Solo un mese fa il governo di Rabat ha inviato una lettera (resa pubblica dalla stampa) al FMI con cui ribadiva il suo impegno nel perseguire le linee guida delle politiche neo-liberiste e nel recepire i “suggerimenti” del Fondo.
Una palese dichiarazione di intenti, i dettagli saranno noti in seguito, anche se è facile presumere che uno degli ambiti di influenza sarà per esempio la “riforma” del codice del lavoro.
In altre parole, nel momento in cui il Marocco comincerà ad utilizzare un solo euro o dollaro di questo prestito, entrerà nell’orbita stringente della condizionalità.
In un modo o nell’altro l’esecutivo sarà costretto ad applicare le misure economiche e finanziarie che verranno dettate dai suoi creditori, cedendo parte della propria sovranità. Posto che una sovranità in materia sia realmente esistita fino ad ora…
Torniamo alla Caisse de compensation. In merito alla legge finanziaria del 2013, ora al vaglio del governo e poi del Parlamento, si è già parlato di una drastica riduzione, se non addirittura della soppressione, di questo sistema di sovvenzione dei prodotti di base (farina, zucchero, benzina, gas..). E’ un primo riflesso di quella “condizionalità” a cui faceva prima riferimento?
Gli impegni assunti dal Marocco con il WTO e il FMI nei decenni passati avevano già imposto la soppressione delle sovvenzioni statali, poiché definite anti-concorrenziali in una logica di libero mercato.
Sulla matrice neo-liberista del provvedimento, quindi, non ci sono dubbi, anche se una simile decisione non è dettata solo dalle nuove pressioni esterne, ma anche dall’insostenibilità interna.
La sua incidenza sul budget di governo ha raggiunto record storici nel 2011 (7-8% del PIL), quando l’esecutivo ha deciso di servirsene a dismisura – pur sapendo di andare incontro al fallimento – per “acquistare” la pace sociale durante i mesi della contestazione politica promossa dal Movimento 20 febbraio e ridurre il seguito dei manifestanti.
Inoltre, non ho difficoltà ad ammettere che la Caisse de compensation così come è stata concepita è un sistema di protezione inefficace, che per di più non è basato su parametri di equità.
Perché non è equo? Perché non fa la differenza tra colui che compra il prodotto sovvenzionato avendone un reale bisogno e colui che non ne ha necessità.
E’ un sistema altamente dispendioso in cui il ricco e il povero godono della stessa sovvenzione. Un fatto inaccettabile.
Sarebbe molto più giusto e conveniente proporre un sistema di aiuto diretto al cittadino in base alla fascia di reddito.
Ma anche in questo caso ho paura che la parola riforma sarà semplicemente sinonimo di tagli, con l’unica conseguenza di un aumento indiscriminato del costo della vita di fronte al congelamento dei salari.
Il rischio è che a pagare il prezzo saranno ancora gli strati più indigenti della popolazione, vale a dire la sua larga maggioranza, mentre nulla sarà fatto per apportare nuove regole di trasparenza e per lottare contro la corruzione, gli oligopoli e gli abusi dei gruppi più influenti che hanno contribuito a mettere in ginocchio l’economia del paese.

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Autore Guardi Jolanda; Vanzan Anna Prezzo Sconto 15% € 10,20 (Prezzo di copertina € 12,00 Risparmio € 1,80) Dati 2012, 206 p., ill., brossura Editore Ediesse (collana Sessismoerazzismo) L’immagine che l’Occidente ha della cultura musulmana è quella, tra l’altro, di una cultura omofobica e avversa alle sfumature di genere. C’è chi ritiene che l’omosessualità, intesa come rapporto paritario, non sarebbe esistita nel mondo musulmano fino all’incontro con la modernità occidentale; chi predica invece che l’omosessualità sia sempre stata diffusa nelle società musulmane a causa della segregazione tra i sessi, rivelando il proprio insito razzismo perché la riduce al mero atto sessuale e a una forzata necessità. C’è chi considera “tutto ciò che altera l’ordine del mondo” un grave “disordine, fonte di male e, fondamentalmente, anarchia”. Meglio allora la transessualità intesa come cambiamento di sesso che il travestitismo; meglio maschie barbe che il volto sbarbato; meglio imputare l’omosessualità alla “decadente” cultura occidentale, e rinnegare in tal modo la sua matrice autoctona. In realtà, la storia dell’omosessualità nelle società musulmane è complessa e articolata, e presenta sostanziali variazioni nel tempo e nelle realtà socio-geografiche e una vasta gamma di atteggiamenti tra i musulmani stessi. Il presente libro offre una panoramica ampia ed esaustiva, spesso dissacrante e provocatoria, del rapporto omosessualità-islam. Partendo dall’analisi dei testi sacri musulmani (Corano e hadith), il volume affronta l’argomento con un’analisi condotta in prospettiva teorica, storico-sociale e letterario-artistica, con rigore linguistico nell’uso o nella traduzione di termini arabi e persiani. Acquista il libro su IBS

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