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Mar 11, 2024

Come ti immagini un mondo in cui ciascuno può decidere con serenità del proprio futuro? Un mondo in cui il lavoro di ognuno è giustamente ricompensato? Per noi è uno spazio in cui a ogni cosa viene riconosciuto il proprio valore e in cui ogni individuo è padrone di decidere del proprio destino. “Valore” è la parola chiave della campagna “Spesa Giusta”, edizione 2012, perché quest’anno più che mai vogliamo celebrare i valori cardine del sistema Fairtrade. Il Fairtrade promuove il rispetto dell’uomo e la salvaguardia dell’ambiente, ma è anche schierato in prima linea per il lavoro, cioè quella attività attraverso la quale ciascuno dovrebbe poter esercitare la propria libertà e i propri diritti. E poi ci sono le mani, la terra e la ricchezza dei suoi frutti… le storie degli uomini e delle donne che ogni giorno contribuiscono con il loro impegno a renderla così prospera. Il Fairtrade cambia le regole delle relazioni commerciali, e ti costringe a pensare che un mondo migliore sia realizzabile. In occasione delle settimane della “Spesa Giusta” Fairtrade Italia ti invita a scoprire un nuovo modo di fare la spesa e ti chiama a far parte della storia di ogni singolo prodotto. Dal 13 al 28 ottobre dai “Valore alle tue scelte” con i prodotti del commercio equo certificato Fairtrade e partecipa all’avventura che fino ad oggi è riuscita a coinvolgere più di 1,2 milioni di lavoratori nel mondo cambiando la loro vita. viaFairtrade Italia.

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Mar 11, 2024

(osservatorioiraq.it) di Jacopo Granci Nel regno alawita cresce il malessere e la contestazione sociale. La grave crisi economica (spinta dall’indebitamento e dal saldo negativo della bilancia commerciale) che sta attraversando il paese ha costretto nei mesi scorsi il governo ad adottare misure impopolari quali l’aumento del costo del carburante e la soppressione della Caisse de compesantion – strumento finanziario a disposizione dell’esecutivo per calmierare i prezzi dei prodotti di base, il cui intervento fu determinante nel 2011 per arginare la “primavera marocchina” ed assicurare la pace sociale. Queste misure, in mancanza di una effettiva redistribuzione della ricchezza e dell’incidenza delle “politiche di sviluppo” annunciate dalle autorità, sono destinate ad aggravare la condizione delle fasce più fragili e marginalizzate della popolazione. Una popolazione, tuttavia, che non sembra più disposta a nuovi sacrifici o a barattare la propria dignità. Lo dimostra la tenace resistenza degli abitanti di Imider accampati sul monte Alebban (sud-est) e la ripresa ad oltranza delle manifestazioni da parte dei diplomés-chomeurs (laureati-disoccupati), quotidianamente in marcia nelle strade della capitale dopo la promessa – disattesa – di nuove assunzioni. Lo dimostrano anche le sollevazioni registrate la scorsa settimana a Tangeri e a Sidi Ifni. Nell’ex città internazionale gli abitanti del quartiere popolare Ard Doula, scesi in strada mercoledì 2 ottobre per impedire lo sfratto di una famiglia inadempiente, sono stati attaccati dalle forze di polizia. Dopo gli scontri, il padre della famiglia sotto sfratto è deceduto all’ospedale (apparentemente a causa delle inalazioni di gas lacrimogeno) mentre i figli e la moglie sono stati arrestati. Il quartiere ha così conosciuto una nuova ondata di contestazione e rappresaglie di cui tuttora non si conosce l’esito. Anche a Sidi Ifni, città già teatro di duri scontri tra le forze di sicurezza e la popolazione nel 2008, è stato l’arresto di alcuni attivisti ad innescare sit-in e cortei, sedati solo dopo l’intervento violento degli agenti e gli ennesimi fermi. Le proteste contro la marginalizzazione economica e lo sfruttamento delle risorse locali da parte delle grandi compagnie (senza effettive ricadute sul territorio), dopo quattro anni, proseguono senza che niente sia realmente cambiato. La disoccupazione, la mancanza di infrastrutture e prospettive restano le stesse ferite di allora. Ferite che continuano a sanguinare. Ritorno, con un reportage scritto nel giugno del 2010 ma tuttora di attualità, su una “primavera” soffocata e dimenticata troppo in fretta. La lenta agonia di Sidi Ifni Le onde dell’oceano si infrangono rumorose sulla spiaggia rossastra. Appena qualche metro di sabbia separa l’Atlantico dalla parete rocciosa su cui è adagiata Sidi Ifni, una cittadina colorata e all’apparenza sorniona, duecento chilometri a sud di Agadir. La pioggia caduta negli ultimi giorni non sembra aver scoraggiato le carovane di surfisti in rotta verso Dakhla e le rive del Sahara. Alle dieci del mattino le vie del centro sono già affollate. E’ domenica, giorno di mercato. Mentre gli uomini se ne stanno seduti nelle terrazze dei bar, quasi intorpiditi dai primi tiepidi raggi di sole, le donne, cariche di borse, provvedono agli acquisti. Nel mio girovagare senza meta mi imbatto in una piazza circolare, ben curata, su cui si affaccia il municipio e una vecchia chiesa oggi convertita in Palazzo di giustizia. E’ Place Hassan II, ma tutti la ricordano ancora come Plaza de España, il fulcro dell’attività politica ed economica durante il periodo coloniale. A pochi passi di distanza in direzione del mare si trova la Barandilla, una balaustra in marmo che costeggia il ciglio del promontorio, dove gli Ifnaouis vengono a passeggiare la sera in attesa del tramonto. Nella toponomastica della città come del resto nella sua architettura, si celano le tracce di un passato non troppo lontano che la popolazione locale fatica a dimenticare. C’era una volta Santa Cruz del Mar Pequeña Raggiunte le isole Canarie nel XV secolo, gli Spagnoli cercarono a più riprese di conquistare un approdo sicuro nella costa nordafricana. Gli abitanti della regione, i bellicosi Ait Baamrane, resistettero a lungo, prima di cedere alla superiorità iberica nel 1859. Gli occupanti, che presero possesso del territorio solo nel 1934, trasformarono le poche case sparse lungo il litorale nella “ridente” Santa Cruz del Mar Pequeña. Questo il nome scelto per il piccolo borgo, costruito in puro stile moresco, oggi conosciuto come Sidi Ifni. Nella memoria dei vecchi Ifnaouis è ancora scolpita la frase che il generale José Vega Rodriguez pronunciò nel 1969, al momento di rimpatriare le ultime truppe: “Qui lasciamo il meglio di ciò che la Spagna poteva offrire”. In effetti, al tempo dell’occupazione iberica, Santa Cruz aveva acquisito un ruolo di primaria importanza nella gestione dei domini coloniali nel Maghreb occidentale. Dalla piccola cittadina dipendeva il controllo politico e militare dell’intera regione del Sahara. La sede del governatore dettava ordini e direttive agli avamposti di Laayoune, Smara e Dakhla. L’aeroporto permetteva un collegamento costante con le vicine Canarie e l’ospedale della città “era uno dei più efficienti di tutta l’Africa del nord”, come ricordano ancora con vanto gli abitanti del posto. “Avevamo una radio locale, cinema, scuole reputate e perfino un casinò”, rammenta Makhjuba, una vecchia Ifnaoui dal volto scuro, solcato da rughe profonde. I suoi stivali di gomma calpestano ogni giorno la poltiglia di fango e pesce marcito che ricopre la banchina del porto. Dà una mano al mercato dei grossisti, in cambio di qualche orata che rivende poi in paese. “Al tempo degli Spagnoli la città era dinamica, viva, gli abitanti non subivano discriminazioni e il lavoro non mancava. Quando se ne sono andati, a Ifni non è rimasto nulla”. Oggi anche i giovani sembrano avere nostalgia per un’epoca che non hanno vissuto. La città, una volta passata in mano marocchina, è stata messa da parte, dimenticata. Chiuso l’aeroporto, oggi una tetra spianata di rovine e immondizia, scomparsi gli impieghi pubblici e tagliati i fondi per l’ospedale. Dietro la facciata decrepita, su cui si fatica a leggere la scritta “urgenze”, non è rimasto neanche uno specialista. Solo un giovane medico, affiancato da una manciata di infermieri. “Lavoriamo in condizioni impossibili: i macchinari sono pochi e obsoleti, a volte non abbiamo nemmeno la benzina per utilizzare l’ambulanza”, confessa il dottore che lamenta l’impotenza della struttura sanitaria. Quali le ragioni di questo brusco cambiamento? Ismail, seduto su una cassetta di legno all’ingresso del molo, sembra avere una risposta. “Gli abitanti della zona, appartenenti alla tribù degli Ait Baamrane, sono storicamente considerati dei ribelli. Prima di cedere alla conquista spagnola, i capi della tribù non hanno mai riconosciuto apertamente l’autorità del sultano alawita. Tra gli Ait Baamrane e la monarchia ci sono sempre stati dei rapporti conflittuali”. Allo stesso tempo bisogna però riconoscere che la tribù dei Baamrane si è battuta a lungo contro gli occupanti iberici, riuscendo perfino ad imporsi sul terreno militare. Se nel 1969 gli accordi di Fes restituirono al Marocco l’enclave di Sidi Ifni, mentre i domini del Sahara rimasero sotto il controllo di Franco per altri sei anni, fu anche per merito della resistenza. “Rabat ci ha ringraziato costringendoci all’isolamento e ad una lenta agonia”, precisa Ismail fissando la scogliera schiaffeggiata dalle onde. Oltre ai vecchi rancori, nuovi eventi sopraggiungono a complicare le relazioni già tese tra l’autorità centrale e la lontana Ifni. “Nel 1971, in occasione della visita reale, qualcuno tentò di uccidere Hassan II mentre stava attraversando in auto il quartiere di Colomnine. Da quel momento il sovrano ce l’ha giurata a morte”. Come se non bastasse, dopo la partenza degli Spagnoli dal Sahara Occidentale e l’inizio del confronto tra l’esercito marocchino e il Fronte Polisario, alcune famiglie degli Ait Baamrane si sono schierate in difesa della RASD (Repubblica araba saharawi e democratica), sostenendo il governo di Tindouf. L’ennesimo affronto mal digerito dalla monarchia. Dal Collettivo al blocco del porto All’interno del Café Chez Fatima, a qualche passo da Plaza de España, lo stereo diffonde le note di una lenta melodia gnawa. Le foto esposte sulle pareti ritraggono la città in bianco e nero all’inizio del secolo scorso: l’imbarcadero utilizzato dagli sagnoli per trasferire merci ed equipaggi sulla terraferma, la scalinata in pietra che dalla Barandilla scende verso la spiaggia e il campo di volo. “L’unica risorsa a disposizione di Sidi Ifni, una volta tornata sotto il controllo marocchino, era la pesca”, esordisce Fares Hafifi, pescatore e membro della sede locale di Attac. Il piccolo porto, incastonato tra le rocce del promontorio e le correnti dell’Atlantico, è riuscito per anni a tenere in piedi l’economia dell’intero borgo. I proventi di una sola barca bastavano ad assicurare la sopravvivenza di due o tre famiglie. Almeno fino alla fine degli anni Novanta. Poi l’arrivo dei grandi pescherecci provenienti dal nord ha ridotto i marinai della zona in miseria. Il tasso di disoccupazione ha raggiunto livelli stellari e per molti l’emigrazione è rimasta la sola via d’uscita. “Chi possiede documenti spagnoli, un caso non raro a Ifni, tenta la traversata in mare fino alle Canarie. Anche con le nostre barchette sgangherate, servono appena tre giorni di navigazione”, spiega Hassan, un disoccupato in possesso dei diplomi di informatico e elettricista. La città si sta spopolando, sono sempre più quelli che decidono di partire. “Nel 2005, di fronte all’indifferenza delle autorità, gli abitanti hanno reagito con la formazione di un Collettivo locale”, interviene Mohamed Salah, rimasto in silenzio fino a quel momento. Il Collettivo, di cui fanno parte formazioni politiche, sindacati e associazioni, chiede la fine della marginalizzazione imposta alla regione. “Volevamo far pressione sul governatore perché si preoccupasse dello sviluppo economico e sociale del territorio – conferma Mohamed, uno dei fondatori – così abbiamo organizzato i primi scioperi, avanzando una lista di rivendicazioni indispensabili per il futuro della città”. Tra le richieste, il completamento dei lavori al porto, la riattivazione dell’ospedale e la costruzione di una via di collegamento tra Ifni e Tan-Tan, cittadina alle porte del Sahara situata cento chilometri più a sud. “Ci parlano di risorse turistiche, ma di fatto viviamo ancora in una condizione di isolamento. La strada mal ridotta che arriva da Tiznit si trasforma in un sentiero sterrato appena varcato il paese”. Nell’agosto 2005 la prima mobilitazione, repressa dalla polizia. Le dimostrazioni del Collettivo proseguono, con il sostegno aperto della popolazione. Le autorità prendono tempo, fanno promesse, ma nessun cambiamento sembra concretizzarsi. “Lo Stato ha continuato ad ignorare le nostre esigenze”, puntualizza Mohamed Salah. Mentre il Collettivo preferisce non rinunciare al dialogo, pescatori e disoccupati scelgono un’altra via per far sentire la propria voce. Il 30 maggio 2008 rompono gli indugi e bloccano l’accesso al porto. I camion in partenza verso Agadir non possono lasciare il molo e ai pescherecci è proibito uscire in mare. La scelta, per quanto drastica, riceve ancora una volta la solidarietà dei cittadini, stanchi delle promesse di Rabat e del declino che costringe centinaia di Ifnaouis all’emigrazione. “La protesta è andata avanti una settimana”, ricorda Fares. Oltre alle vecchie rivendicazioni, i manifestanti reclamavano la creazione di fabbriche per la lavorazione del pesce in loco. “Tutto il pescato di Ifni se ne va all’estero, in seguito al passaggio nelle industrie di Agadir. Di questa immensa ricchezza a noi non restano che le briciole”, conclude il pescatore, tra i protagonisti del blocco. Sabato 7 giugno, dopo otto giorni di sit-in, la polizia interviene per soffocare il malcontento. Per la città si apre uno dei capitoli più neri della sua storia. Il “sabato nero” L’operazione comincia alle prime luci dell’alba. “La mia casa si trova all’ingresso del paese. Alle cinque di mattina ho sentito i rumori delle camionette e dei mezzi blindati che stavano circondando la città”, riferisce Elkhalil Rifi, membro di Attac. I vertici militari di Rabat hanno dispiegato circa diecimila agenti per infliggere una punizione collettiva ai “ribelli” di Ifni. Una prima colonna penetra nelle vie del centro, passando al setaccio casa per casa e seminando il terrore tra gli abitanti. Una seconda colonna imbocca la strada che scende al porto. Lo scontro è inevitabile. Tuttavia, la sproporzione delle forze in campo rende vano ogni tentativo di resistenza cittadina. “Il 7 giugno 2008 è ricordato da tutti come il sabato nero. Le forze di polizia hanno picchiato e distrutto a loro piacimento, senza obiettivi precisi. La loro furia si è scagliata perfino contro le donne, gli anziani e i bambini. Solo chi è riuscito a barricarsi dietro a porte di ingresso ben salde ha potuto impedire il saccheggio e scampare alle violenze”, ricorda Brahim Barra, portavoce della ong. La sede locale di Attac, una delle prime organizzazioni a schierarsi al fianco dei grevistes, si trova nel centro della città, a metà strada tra il mercato e la moschea. Al suo interno una decina di attivisti confabulano animatamente, attorno a un tavolo di legno guarnito con thé e pasticcini. “Continuano a ripeterci che gli anni di piombo sono finiti e che il Marocco rispetta i diritti dell’uomo. Ma il 7 giugno 2008 Ifni ha riassaporato le atrocità di Derb Moulay Cherif (centro di tortura segreto in cui transitavano i detenuti politici fino ai primi anni novanta, nda)”, esclama Rifi voltandosi di scatto. Miriam, seduta al suo fianco, conferma l’inferno di quelle ore: “Sono stata sequestrata mentre camminavo in strada. Non ne sapevo niente di ciò che stava succedendo. All’interno del commissariato mi hanno presa a schiaffi e manganellate. Poi alcuni agenti mi hanno spogliata…”. La ragazza si blocca, il volto coperto dalle mani che si rifugiano nervose sotto il foulard portato con eleganza. Al termine della giornata si contano centinaia di feriti, le scuole della città sono evacuate e trasformate in caserme: nel commissariato non c’è posto per tutti i fermati e gli arresti proseguono per settimane. “La città è rimasta sotto occupazione militare fino al settembre 2008”, precisa Brahim. Intanto il dramma di Sidi Ifni fa il giro del mondo. Amnesty International e Human Rights Watch cercano di fare pressione su Rabat. All’interno del regno si moltiplicano le manifestazioni di solidarietà. Anche i media ne parlano: al-Jazeera manda in onda i filmati delle violenze. Dopo tre mesi il Palazzo è costretto ad allentare l’assedio. Richiama i militari e allo stesso tempo cerca di salvare la faccia, scaricando tutte le responsabilità sui “ribelli”. “La stampa di regime ci ha dipinto come pericolosi terroristi – spiega Barra – ma, al contrario delle accuse che ci sono state rivolte, non abbiamo mai avuto obiettivi separatisti. Vogliamo soltanto veder riconosciuti i nostri diritti di cittadini”. Nel momento in cui viene tolto l’embargo dalla città, undici persone si trovano ancora in carcere. Ci sono membri del Collettivo locale, di Attac e dell’associazione dei laureati-disoccupati. Su di loro pendono gravi capi di imputazione. Nel marzo del 2009 il tribunale di Agadir li riconosce colpevoli, tra le altre cose, di “tentato omicidio, costituzione di banda criminale e armata, manifestazione non autorizzata e distruzione dei beni pubblici”. Mohamed Issam, membro del Collettivo e militante del CMDH (Centro marocchino per i diritti umani), ha lasciato il carcere di Inezgane il 7 gennaio scorso. “Sono le mie prime settimane di libertà”, puntualizza con un sorriso ironico e lo sguardo chino sul pavimento polveroso. “Durante il processo alcuni poliziotti hanno testimoniato contro di me. Stando alle loro parole, avrei tentato di ucciderli. Ma io quel sabato ero scappato sui boschi prima dell’inizio dell’operazione”. Mohamed ha trascorso un anno e mezzo nel penitenziario di Agadir. A lui è toccata la pena più gravosa. “Le celle traboccavano di gente, ottanta detenuti in uno spazio di circa trenta metri quadrati. Niente docce, solo secchi d’acqua fredda”, riferisce il giovane ifnaoui, che dopo una breve pausa conclude il suo racconto: “per dormire non c’erano materassi e la superficie a disposizione non bastava per tutti. Eravamo costretti a stenderci di lato, uno appiccicato all’altro”. Il prossimo 24 marzo è atteso il processo in appello. Se la sua condanna venisse aggravata, Issam sarebbe costretto a tornare in prigione. L’incubo di Inezgane continua a tormentarlo. La “mafia di Tiznit” La brezza dell’oceano soffia leggera sul molo semideserto. Un fitto drappello di barche, lunghe al massimo tre o quattro metri, ondeggia seguendo il ritmo incalzante dei flutti trascinati dall’alta marea. I pescatori di Ifni non sono usciti in mare, troppo minaccioso per i piccoli scafi a causa della burrasca abbattutasi sulla costa durante la notte. “Solo i grandi battelli hanno preso il largo dopo il tramonto”, mi informa Fares Hafifi, indicando due pescherecci attraccati sul lato opposto della banchina. La grande disponibilità di risorse ittiche e l’eccellente qualità del prodotto presente nelle acque della zona ha attratto le grandi flotte provenienti da Casablanca, Safi ed El Jadida, che dalla seconda metà degli anni novanta si sono impadronite del porto. Le reti hanno sostituito gli ami e la pesca a strascico ha massacrato i fondali, dove la gran parte delle specie si rifugia durante la riproduzione. “I pescherecci utilizzano tecniche illegali, come le reti piombate e quelle a maglie minuscole, che catturano tutto il pesce, compreso quello di piccola taglia la cui vendita sarebbe proibita”, spiega Fares. Chi dovrebbe controllare, la Delegazione dei porti, preferisce chiudere un occhio, poiché parte integrante di quel circuito d’affari che in paese chiamano “la mafia di Tiznit”. “Un apparato clientelare che ruota attorno all’autorità politica della regione, il governatore di Tiznit – precisa il pescatore – è lui a concedere i permessi agli armatori delle grandi flotte e a lasciare campo libero ai grossisti, che rivendono le sardine di Sidi Ifni ad un prezzo dieci volte maggiore rispetto a quello di acquisto”. Non è solo il mancato guadagno a preoccupare Fares. “A questo ritmo le nostre acque si spopoleranno. Già oggi non sono più pescose come un tempo. Con i loro metodi l’ecosistema marino rischia di venire compromesso”. Di fronte a questa eventualità i marinai non escludono nuove mobilitazioni. Dopo la rivolta sfociata nel “sabato nero”, erano molte le aspettative maturate in seno alla popolazione. Nonostante la repressione e le condanne, infatti, i membri del Collettivo sono riusciti a conquistare la maggioranza in consiglio comunale alle elezioni del 2009. Ma i poteri della giunta restano fortemente limitati dall’autorità del governatore, rappresentante in loco del ministero dell’Interno. In concreto nulla sembra essere cambiato, come conferma il membro di Attac: “la situazione al porto è ancora drammatica. Per rinnovare l’attrezzatura i pescatori si sono coperti di debiti, che impiegheranno anni a colmare con i loro magri guadagni”. La lezione impartita dal regime a colpi di manganello non spaventa i “ribelli” di Sidi Ifni, che si dicono “pronti a riprendere la protesta, se necessario con un nuovo blocco”. La città è ormai stanca di aspettare un futuro che da quarant’anni tarda ad arrivare.

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Mar 11, 2024

(limes) Intervista ad Hassan Ben Brik La rivoluzione dei gelsomini ha tutt’altro che concluso il suo percorso di trasformazione della società tunisina. L’eco della primavera araba, che da Sidi Bouzid nel cuore della Tunisia rurale alle strade del Cairo, Tripoli e Damasco ha portato in strada migliaia di sostenitori della democrazia e dei diritti civili, ci costringe ancora una volta a ripensare i paradigmi e ridefinire gli scenari possibili. Dal dicembre 2010 ad oggi la Tunisia ha fatto i conti con la disperazione di Mohammed Bouazizi, le proteste spontanee dei giovani delle aree marginalizzate del paese, i tumulti della capitale, le dimostrazioni pacifiche della borghesia delle grandi città, gli attacchi informatici e la solidarietà internazionale dell’antagonismo occidentale per i sostenitori del “dégagé”. Il paese ha vissuto le sue prime elezioni democratiche (ovviamente non senza polemiche) e ha destato stupore nella comunità internazionale per la rapidità nel proporre nuove istituzioni credibili e capaci di lavorare subito dopo il voto per una nuova costituzione. Il successo del partito islamico moderato Nahda e l’apparente sicurezza di un uomo rispettato come Rached Ghannouchi sembravano inquadrarsi in un percorso d’ispirazione turca dove laicismo e islam potessero trovare una nuova sintesi. Il percorso politico e sociale che sta portando la Tunisia verso la promulgazione della nuova costituzione ed elezioni legislative (ottimisticamente entro la prossima estate) si arricchisce di attori nuovi, che in realtà nuovi non sono per niente. Soggetti che spaventano l’opinione pubblica internazionale, ma anche parte della società tunisina. Il salafismo pretende spazio nel nuovo scenario politico e trova nel contatto con il popolo la sua naturale arma di proselitismo. Nella giornate infuocate di settembre, quando sono state prese di mira le ambasciate di molti paesi arabi oltre ai simboli del potere economico occidentale, anche la Tunisia ha fatto i conti con una piazza che al grido di “Allah Akbar” (“Allah è il più grande”) ripropone il tema centrale di tutta questa primavera. Che ruolo deve avere l’Islam nella costruzione dello Stato post-rivoluzionario? La responsabilità degli atti di violenza delle scorse settimane, conseguenza della diffusione su Internet del peggiore porno soft di sempre (Innocence of Muslims di Nakoula Basseley Nakoula) e delle vignette di Maometto pubblicate dal settimanale francese Charlie Hebdo, è ricaduta sul gruppo salafita Ansar ash-Asharia (“i sostenitori della sharia”). Il gruppo jihadista tunisino condivide il nome e il progetto politico con altre realtà jihadiste nel mondo arabo, ma non ne rappresenta una costola, anzi rivendica la paternità del nome e si erge a modello per gli altri paesi. In un incontro esclusivo con Hassan Ben Brik, responsabile Dawa (predicazione) di Ansar ash-Asharia, poco prima del suo arresto e da tutti considerato il secondo dopo Abou Iyadh, abbiamo avuto la possibilità di gettare luce sul progetto politico del gruppo salafita e sul ruolo che attualmente stanno giocando in Tunisia ed in tutta la regione. L’intervista si è svolta a settembre in una casa alle porte di Tunisi, dove siamo stati accolti e siamo rimasti per diverse ore a colloquio con Hassan; questi, dopo una prima fase di studio, si è aperto con naturalezza al confronto. Con me c’erano il ricercatore e giornalista Fabio Merone, la giovane free lance inglese Louisa Loveluck ed il fratello di Ben Brik, Karim Minissi, nostro contatto e facilitatore dell’incontro. LIMES Qual è stato il vostro percorso, dove nasce Ansar ash-Asharia? HASSAN BEN BRIK Il gruppo fondativo è attivo in Tunisia dal 2003, siamo tornati in Tunisia dopo aver intrapreso percorsi all’estero, ci siamo conosciuti in carcere e abbiamo iniziato il nostro lavoro da lì. Per anni in Tunisia l’insegnamento del Corano e la professione della fede islamica sono stati violentemente repressi. Qui non era possibile predicare liberamente: si rischiava il carcere o anche la morte. LIMES Qual è il vostro progetto politico? HASSAN BEN BRIK Il nostro nome è anche il nostro progetto politico, vogliamo portare la sharia in Tunisia e nel mondo arabo. Per raggiungere questo obiettivo bisogna parlare con il popolo e avere la possibilità d’insegnare l’islam e la legge coranica. LIMES Rivendicate quindi un progetto indipendente rispetto ad altri gruppi che richiamano al tema della sharia e che si stanno muovendo in altri paesi? HASSAN BEN BRIK Noi siamo nati molto prima e vogliamo essere un modello per il mondo arabo, condividiamo con altri gruppi il punto di arrivo, ma rivendichiamo una nostra peculiarità nel percorso e nel lavoro di diffusione dell’islam. LIMES Siete quindi pronti per il jihad? HASSAN BEN BRIK Il jihad è sicuramente parte del nostro progetto politico, ma non abbiamo alcun interesse attualmente a intraprendere iniziative violente o atti terroristici. La lotta per la creazione di uno Stato islamico ha bisogno dell’appoggio del popolo. Non esiste jihad, se il popolo tunisino non è con noi. LIMES È vero che la vostra prima apparizione pubblica è nata come conseguenza di un messaggio arrivato direttamente da Osama bin Laden nelle settimane successive allo scoppio della rivoluzione? HASSAN BEN BRIK Lo escludo categoricamente: abbiamo contatti internazionali, ma siamo nati da un’esperienza tutta interna alla Tunisia e ne rivendichiamo le specificità. LIMES Qual è il suo ruolo nell’organizzazione e come si struttura Ansar ash-Asharia? HASSAN BEN BRIK Io sono il responsabile della Dawa (la predicazione), il mio lavoro è quello di portare Ansar ash-Asharia in tutto il paese, per insegnare il Corano e parlare con il popolo tunisino. Anni di laicismo, prima con Bourguiba e poi con Ben-Alì, hanno allontanato la Tunisia dalle sue radici islamiche. Il nostro scopo è riportare l’islam in Tunisia ed arrivare alla costituzione di un governo islamico. Sulla struttura non posso dire nulla, tutti gli esponenti del Ansar ash-Asharia sono sotto il mirino del governo e della comunità internazionale e io preferisco parlare solo ed esclusivamente del mio ruolo nell’organizzazione. LIMES Siete pronti a dialogare con le altre frange salafite e soprattutto con il Nahda? HASSAN BEN BRIK Ci sono molti punti in comune con il Nahda, nel breve periodo la creazione di una coalizione e l’elezione di un leader unico che possa rappresentare i partiti islamici è un’ipotesi che c’interessa molto. Attualmente però il Nahda sta dimostrando di essere il servo dell’America e ci mette sotto pressione per costringerci all’isolamento; anche le ultime dichiarazioni di Gannouchi sono contraddittorie e non lasciano spazio al dialogo. LIMES Come si concilia il jihad con il lavoro politico che state attualmente svolgendo? HASSAN BEN BRIK Noi non crediamo nella democrazia, ma appoggiamo le elezioni. Sarà il popolo tunisino a decidere chi dovrà governare e noi vogliamo avere il nostro ruolo in questo processo. Tra i nostri obiettivi c’è anche la creazione di un sindacato dei lavoratori e uno per gli studenti islamici, il processo dovrà portare alla costituzione di un partito islamico unico che governi il paese. LIMES Oltre al vostro progetto politico e alla Dawa, quali sono i punti di contatto che state stabilendo con il popolo, avete anche voi un ruolo sociale come i Fratelli musulmani o Hamas? HASSAN BEN BRIK Essere vicini al popolo non è una scelta politica, è un insegnamento coranico. Alla fine del Ramadan il corano prevede che ogni famiglia devolva il 10% dei propri averi ai più bisognosi. Noi non abbiamo fatto altro che raccogliere parte di questi fondi e organizzarli in un programma di sostegno annuale. Noi prendiamo dal popolo per ridare al popolo. Ci siamo presentati ufficialmente al paese il 20 maggio e abbiamo portato a Keirouan (quarta città santa per i musulmani, 250 chilometri a sud di Tunisi) oltre 20 mila persone. In quell’occasione abbiamo spiegato il nostro progetto e abbiamo teso una mano al popolo tunisino; aspettiamo e lavoriamo perché la colgano. LIMES Passiamo ai recenti avvenimenti e alle accuse che vi vengono mosse. Qual è la vostra responsabilità nell’attacco all’ambasciata americana e nelle violenze degli ultimi giorni? HASSAN BEN BRIK Le provocazioni giunte dall’Occidente hanno innescato un rabbia che noi stessi abbiamo cercato di controllare. La strategia dell’America è chiara, provocare il mondo arabo per costringerlo a scendere in piazza in maniere disorganizzata, spingendo verso il conflitto nel tentativo di rallentare il processo di strutturazione di solide realtà islamiche e jihadiste. Io stesso ho dovuto mediare con gli altri gruppi salafiti in più occasioni per evitare inutili scontri. Il nostro è un progetto che ha bisogno di muoversi alla luce del sole, nel lungo periodo; ogni provocazione non fa altro che rallentare tale processo. LIMES Quindi a chi sono imputabili le violenze? HASSAN BEN BRIK Il quadro degli scontri è molto più complesso di come lo vogliono dipingere i media. La nostra presenza nelle strade e nelle manifestazioni è accolta e sostenuta da migliaia di giovani delle periferie che vedono in noi un punto di riferimento e ci sostengono. Molti sono poi gruppi e singoli conosciuti negli anni del carcere, loro appoggiano le nostre iniziative anche se non prendono parte in maniera integrale al movimento. L’insieme di queste realtà sociali può provocare atti di violenza di cui non possiamo ritenerci direttamente responsabili. Come ho già detto il nostro progetto lavora sul lungo periodo, non accettiamo le provocazioni, ma non crediamo neanche sia utile cercare lo scontro a tutti i costi. LIMES In conclusione, vi ritenete il nuovo modello per il mondo arabo? HASSAN BEN BRIK In Tunisia, come negli altri paesi arabi e musulmani, il popolo è stanco di false promesse e del linguaggio ipocrita dei partiti attualmente al governo. Oggi, con la fine della dittatura, possiamo agire liberamente e dare progettualità al nostro lavoro d’insegnamento e diffusione della legge coranica. Siamo seguiti, veniamo ascoltati da migliaia di persone, molte più di quelle di tanti partiti che oggi occupano la scena politica. Dall’incontro di Keirouan il percorso è iniziato e siamo pronti a raccogliere le sfide che abbiamo davanti. L’intervista, durata oltre due ore, pur non riuscendo a delineare in un quadro sistemico più ampio il ruolo di Ansar ash-Asharia, ci permette di cogliere le linee di tensione sulle quali si gioca il futuro della transizione in Tunisia e nella regione. Prima di tutto l’atteggiamento del Nahda e quindi dell’islamismo moderato nel prendere una posizione decisa rispetto a una realtà ormai stabile e in crescita come quella dei gruppi salafiti d’ispirazione jihadista. In secondo luogo la capacità dell’Occidente di leggere il nuovo volto della democrazia post rivoluzionaria nel Mediterraneo. La caduta delle dittature filo-occidentali come quelle di Ben-Ali o affaristiche come quella di Gheddafi non ha portato solo Youtube ed elezioni più o meno trasparenti, ma ha riacceso la speranza per quanti hanno dovuto nascondere le radici culturali e religiose e hanno oggi l’occasione di ripensare al loro ruolo nella società. Una società che vogliono libera, indipendente ed islamica. Fotogalleria sulla primavera araba Sergio Galasso è nato a Napoli nel 1983. Laureato in Relazioni Internazionali e Diplomatiche all’Orientale di Napoli e con un master in Cooperazione Internazionale presso l’ISPI di Milano. Dopo aver svolto una short mission di monitoraggio elettorale durante le elezioni di ottobre 2011 in Tunisia, ha creato con Fabio Merone e Laura Salomoni ‘Itinerari Paralleli’, un’associazione di promozione sociale che si propone di svolgere attività di Turismo sociale, politica per il territorio/cittadinanza attiva e cooperazione internazionale. Attualmente l’associazione è attiva in Tunisia, Bosnia e Italia. (11/10/2012)

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Mar 11, 2024

(Magharebia.com) Spain and Morocco signed eight co-operation agreements during a top-level Spanish visit, AFP reported. Security was high on the agenda of the October 3rd meeting in Rabat. The accords also covered simplifying visa procedures, co-operation in tourism, sport, education and transport. “I am convinced that these (bilateral) relations, which are getting stronger and stronger… will benefit” from the visit, Spanish Prime Minister Mariano Rajoy was quoted as saying by the official MAP news agency after meeting King Mohammed VI in Marrakesh. The Spanish premier earlier met his counterpart Abdelilah Benkirane in the capital, during a day of meetings between the ministers of foreign affairs, interior, justice, education, agriculture and energy. At a joint press conference, at the end of a day, Rajoy and Benkirane underlined the need for “deep, solid and fruitful” bilateral relations. Both sides discussed security threats weighing on the Sahel region and affecting its stability. These threats require horizontal and participatory responses given that the dangers concern not only neighbouring countries but affect the entire Mediterranean region. In the Declaration of Rabat, Morocco and Spain called on the international community to opt for co-ordinated operations in all areas related to security, good governance and development in the region. According to Moroccan Interior Minister Mohand Laenser, the two countries reiterated their commitment to contribute to peace, stability and development in the region and to work for the settlement of the regional crises and the preservation of international security under the principles of the UN Charter. “The exemplary co-operation in the security field between Morocco and Spain will widen to France and Portugal,” Spanish Interior Minister Jorge Fernandez Diaz said. He added that it was necessary to deepen bilateral ties in the fight against transnational organised crime, terrorism, mercenaries, piracy, drug trafficking, human trafficking, money laundering and other transnational crimes. For his part, Moroccan Justice Minister Mustapha Ramid agreed to reactivate the joint committee for multidisciplinary analysis and evaluation of co-operation against terrorism and transnational organised crime. Both sides agreed on the need to strengthen security co-operation through regular meetings of experts. They also stressed the importance of enhancing interfaith dialogue and supporting tolerance and respect for diversity as part of the United Nations Alliance of Civilisations.

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